I Faraoni e la conquista della Nubia

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La conferenza di Torino
A seguito di una nostra conferenza a Torino, alla quale era presente anche il prof. Sergio Curto (già direttore del Museo Egizio di Torino), abbiamo ricevuto, il 10 ottobre 2003, una sua lettera: “Cari amici….come già vi dissi, avete modificato un paragrafo di storia. Poichè da tutti si ripeteva (e pur da me) fino a ieri: che gli egiziani antichi si portavano a Wawat per via tutta fluviale...”

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L’ansa di Dongola
Nel 2001 portammo a termine una missione a Wawat, nella Nubia sudanese, allo scopo di documentare le antiche miniere aurifere dei Faraoni. Nel corso della spedizione ipotizzammo che gli egizi entrarono nel deserto tagliando l’ansa di Dongola (milleduecento km di Nilo), riducendo così il tragitto terrestre a cinquecento km (circa quindici giorni di carovana) ed evitando anche la seconda, la terza, la quarta cateratta e gli alisei che da novembre a marzo soffiano da sud est rendendo difficile la navigazione in quel tratto di fiume. All’altezza della seconda cateratta, ora scomparsa sotto il lago Nasser, il Nilo si apriva la strada attraverso più di settanta km di rocce granitiche e strette gole. Gli arabi medievali chiamavano questo tratto di fiume con il termine “Batan alhajar”, il ventre di pietra.

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Le rapide
Ancor oggi i nubiani, per superare le rapide, sono costretti a spingere le imbarcazioni con difficoltà e rischi attraverso gli scogli.

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L’itinerario della missione Castiglioni
Entriamo nel deserto seguendo l’uadi Korosko nel punto dove il terreno, leggermente sopraelevato, impedisce all’acqua di entrare nell’alveo asciutto dell’uadi. Qui, probabilmente, c’era lo scomparso insediamento di Korosko dal quale partivano le carovane egizie.

 

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Ci dirigiamo verso sud, percorrendo il terreno solido e fessurato dove l’acqua è stata assorbita.

 

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Entriamo poi in un’area rocciosa intercalata da accumuli di sabbia dove proseguire diventa difficoltoso.

 

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Il confine Egitto-Sudan
Dopo circa trentacinque km, il terreno si apre in un pianoro e raggiungiamo il confine tra Egitto e Sudan, segnato da una fila di bidoni che sfumano all’orizzonte in un’incombente tempesta di sabbia.

 

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La tempesta di sabbia
Stendiamo alcuni teli tra i veicoli per formare una protezione dietro la quale ripararci.

 

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La tempesta scoppia all’improvviso, nascondendo i mezzi in una nebbia di sabbia.

 

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Dal diario della spedizione:  “…un turbine ci investe: respiriamo, mangiamo, beviamo sabbia. Ci precipitiamo nelle tende. A ogni folata di vento sembra che si debbano sollevare, anche se sono fissate con lunghi picchetti e appesantite nell’interno con bagagli, taniche d’acqua e benzina. Le raffiche si alternano: sono onde che nascono da lontano e s’infrangono contro le tende, accompagnate dal tambureggiare della sabbia sul telo. Ci si sente soli, anche se vicino c’è un’altra tenda. Si tenta di comunicare, ma le parole si sciolgono nel vento… All’alba la tempesta, com’è nata, finisce all’improvviso, lasciando il campo sconvolto.

 

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Il viaggio continua
Ci dirigiamo verso sud cercando di mantenere un itinerario rettilineo, come una carovana che avanza nel deserto e copre il maggior spazio nel minor tempo possibile.

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Dopo alcuni giorni di viaggio raggiungiamo una pianura e notiamo tracce profonde incise sul terreno, lasciate dal calpestio di numerosi animali da soma che hanno scolpito, in un lungo periodo, il terreno con indelebili solchi. Siamo a circa cento km da Korosko e decidiamo di seguirle.

 

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Raggiungiamo una strettoia, dove lunghe fila di pietre affiancate indicano la direzione. Superiamo così il varco che i cammellieri arabi chiamano Khasm el Bab, la serratura della porta.

 

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I primi geroglifici
Su un riparo naturale di arenaria proiettata verso la valle, troviamo incisi i primi geroglifici.
Dal diario della spedizione: “…è la nostra guida Bisharin che ci accompagna a vederli e ce li indica dicendo: “ guardate la roccia scrive”. Restiamo a lungo in silenzio ad osservare quelle incisioni che ci parlano di epoche lontane..”.

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Non è facile trovare geroglifici nel deserto. Erosi dal vento e dalla sabbia sono difficili da individuare. Forse le soste notturne degli antichi viaggiatori erano brevi e non c’era tempo di incidere profondamente il supporto roccioso.

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Su questa parete di arenaria leggiamo i nomi di scriba “contabili dell’oro” certamente diretti alle miniere aurifere di Wawat che scopriremo, numerose, nei prossimi giorni.

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Le zone di bivacco
Non lontano troviamo tracce di antichi bivacchi. Uno in particolare attira la nostra attenzione. A fianco di un cerchio di pietre notiamo frammenti di vasellame, probabilmente egizi.

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Continua la ricerca
Lasciamo Khasm el Bab e riprendiamo il viaggio, mantenendo la stessa direzione sud. Sappiamo che una carovana percorre, mediamente, trenta km al giorno. Decidiamo di coprire questa distanza per poi fermarci a cercare altre antiche zone di sosta.

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Fa molto caldo e il terreno arroventato crea illusori laghi.

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Dopo trenta km raggiungiamo una zona montuosa. Le pareti sono erose dal vento e dalla sabbia, non ci sono geroglifici nè tracce di bivacchi.

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I secondi geroglifici
Percorriamo ulteriori trenta km e ci fermiamo per continuare a piedi le ricerche. Il caldo è opprimente e l’aria vibra. Sembra che il sole voglia rivendicare il suo dominio sulla sabbia e le rocce che ci circondano. Scopriamo così l’ingresso di una piccola caverna.

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Entriamo e l’insignificante anfratto ci riserva una sorpresa. Alcuni geroglifici si stagliano nitidi sulla parete. Si legge: “Io scriba Rahen amato da Horo signore del paese straniero”. Nel ricovero troviamo anche graffiti preistorici che testimoniano la lunga frequentazione del sito.

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La documentazione cine fotografica si prolunga per tutto il giorno in attesa delle migliori condizioni di luce.

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Il campo notturno
Decidiamo di fermarci per la notte e allestiamo il campo in prossimità della grotta. Riprendiamo le ricerche il giorno dopo dirigendoci verso il Jebel Umm Nabari, nel cuore di Wawat. Dopo circa trenta km imbocchiamo l’uadi ed effettuiamo una nuova scoperta.

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I terzi geroglifici
Sul supporto scuro di una parete si legge: “Il sindaco Harnkaht figlio di Penniut vice comandante delle truppe di Miam”.

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Nell’incisione appare la parola “truppe”. E’ la conferma che si trattava di una spedizione militare inviata attraverso il deserto. Pochi geroglifici che, come ha scritto il prof. Curto, hanno modificato un paragrafo di storia egizia.

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Sotto l’iscrizione risaltano anche graffiti preistorici, tra i quali alcuni bovini dalle grandi corna che ricordano gli animali dei pastori Peuls Bororo che attualmente vivono a sud, nella regione del Sahel.

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I quarti geroglifici
Dieci chilometri più a sud, scopriamo un’altra grotta. E’ lunga circa sessanta metri ed è stata scavata, attraverso la collina, da un fiume scomparso.

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Entriamo e nella penombra intravvediamo ancora altri geroglifici: “Capo di Tehket (Dereiba) Paitsy”. E’ il nome di un antico egiziano che ci ha tramandato fino ad oggi il suo ricordo sulla pietra.

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I geroglifici sono stati traslitterati (conversione in simboli alfabetici) da Alessandro Roccati, professore emerito di egittologia alla “Sapienza” di Roma .

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La stele di Kurgus
Dopo essere arrivati fino al Jebel Abu Siha e percorso ulteriori duecento km, raggiungiamo la stele di Kurgus, un affioramento di quarzo in prossimità del Nilo, poco a sud della cittadina di Abu Hamed, con iscrizioni databili ai regni di Thutmose I e Thutmose III (diciottesima dinastia egizia, 1543-1292 a.C.). E’ il luogo che indica il confine meridionale della penetrazione egizia in Nubia e dove termina anche la nostra missione.

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Presso il Museo Castiglioni è possibile scoprire straordinari reperti etnologici ed archeologici.

Tutte le immagini fotografiche, i disegni e i testi di questo articolo sono di proprietà esclusiva dei fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni. Qualsiasi riproduzione, anche se parziale, è vietata. Per ricevere autorizzazione all’utilizzo si prega di contattare il Museo Castiglioni.

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