Somba: una cultura arcaica.

Il gruppo etnico dei Somba abita la regione montuosa tra il Togo e il Benin (chiamato Dahomey al momento della nostra missione, 1950-1960). La catena dell’Atakora è il loro ambiente vitale. Il clima è caratterizzato da un regime tropicale con una stagione delle piogge, da aprile a ottobre, e una secca, anch’essa di sei mesi, da ottobre ad aprile.

Quando nel 1909 l’etnologo tedesco Leo Frobenius (1873-1938) percorse questa zona si meravigliò di trovarla abitata da genti così arcaiche. Anche noi, circa mezzo secolo dopo (1960) fummo sorpresi, come lo studioso tedesco, di trovarci immersi in un mondo preistorico.

Notammo subito che i Somba avevano tutti i caratteri paleonegritici: completa nudità, discendenza patrilineare, ruolo essenziale dell’anziano nell’ambito della famiglia e nel gruppo, agricoltura intensiva, mutilazioni dentarie, arco semplice, importanza del fabbro.

Gli “okoti”, così erano chiamati gli uomini delle generazioni più anziane ai quali i giovani erano subordinati, diventavano indipendenti col matrimonio e, come vuole la consuetudine, svolgevano per un certo periodo di tempo i faticosi lavori agricoli nei campi del suocero, per compensarlo della perdita di un aiuto: quello delle valide braccia della figlia.

L’astuccio penico
Ma fu soprattutto l’astuccio penico (il cosi detto “coprifallo”) a stupirci maggiormente. Un costume che credevamo relegato ad alcune popolazioni dell’Amazzonia e dell’Indonesia. Trovarlo in Africa fu sorprendente. Gli uomini portavano l’organo maschile infilato nella parte terminale cava di una zucca; un astuccio che poteva raggiungere, e anche superare, il metro di lunghezza. Noi fummo tra gli ultimi viaggiatori a vederlo e a documentarlo: poco tempo dopo, infatti, l’uso fu abbandonato, sembra per l’imposizione dei nuovi governanti che volevano cancellare, dopo l’indipendenza del paese, “tracce di primitività”.

 

La forma dell’oggetto richiamava fertilità. Lo scopo per cui veniva portato sembra fosse quello di proteggere l’organo maschile dagli spiriti maligni o dalle persone malevoli che potevano farlo ammalare e renderlo impotente. Aveva anche, come constatammo, una valida funzione protettiva: infatti vedemmo sovente cacciatori inseguire la selvaggina (conigli, roditori, grossi gallinacei ), su terreni cosparsi di cespugli spinosi.

 

Le abitazioni
I Somba si chiamavano anche “Otomari”, “coloro che sanno costruire”. Le loro abitazioni erano edificate con argilla rossa, ricca di ossido di ferro. Vedendole fummo colpiti dallo stupefacente contrasto cromatico con i verdeggianti campi di mais nei quali erano disseminate.

Non esisteva un vero e proprio villaggio ma unità abitative separate, circondate da campi coltivati, disposte tuttavia a distanza di freccia l’una dall’altra, perché, ci fu detto, in caso di incursione da parte di gruppi nemici (un tempo erano dell’etnia dei Bariba, islamizzati) ogni famiglia fosse in grado di aiutare e proteggere i vicini.

Popolo di agricoltori, i Somba coltivavano miglio, fonio, igname, piselli, mais, patate dolci, tabacco che veniva fumato anche dalle donne in pipe costruite da loro.

Chiamate “tata”, queste costruzioni simili a un castello fortificato in miniatura, erano costituite da un insieme di torri di fango con il tetto di paglia, circondate da un muro di circa 3 mt d’altezza.

Una terrazza al piano superiore univa le torri e le più grosse, adibite a camere, avevano una sola apertura. Nella foto vediamo una donna uscire dalla “stanza” e, poco lontano…

… anche un uomo lascia lo stretto pertugio. Fuma la pipa e tiene in mano lo scacciamosche dal quale non si separa mai.

La terrazza era il luogo d’incontro e le donne vi trascorrevano molto tempo svolgendo i numerosi lavori quotidiani: intrecciare la paglia per fabbricare ceste, macinare i cereali, allattare e accudire ai figli, preparare il cibo.

Dall’interno dell’abitazione i Somba raggiungevano il terrazzo, servendosi di una scala: un semplice tronco d’albero nel quale erano scavati rudimentali scalini.

I feticci protettori
I Somba credevano in un Essere Supremo Creatore al quale, per estrema reverenza, non davano né un nome né, tantomeno, un volto. Al contrario i feticci o divinità minori, i “Dibo” (per lo più spiriti protettori della natura) erano molto diffusi e ricevevano un notevole e sentito culto. Nella foto vediamo un “Dibo” protettore della casa. Un vaso coperto di sangue coagulato e piume di gallina: resti di sacrifici effettuati per chiedere la protezione del feticcio.

Era nell’interno delle abitazioni che le donne cuocevano la quotidiana polenta, immerse nella semioscurità, circondate dall’odore di fumo, di stalla, di sudore.

Nella foto vediamo due uomini sbucciare legumi. Un’attività inconsueta in una comunità “primitiva” dove esiste una netta divisione di mansioni. Solo alle donne spetta la quotidiana incombenza di preparare i pasti per tutto il nucleo famigliare. 

Un uomo, proveniente dall’interno dell’abitazione, ha raggiunto la terrazza. Fuma la pipa: vizio e passatempo al quale i Somba non sanno rinunciare.

Alcune donne Somba riparano con argilla i muri del “castello”. E’ un’operazione che si rinnova ogni anno al termine della stagione delle piogge. Con le dita tracciano linee sinuose che rendono più piacevole il risultato.

Un anziano Somba sale i gradini scavati in un tronco d’albero per raggiungere la sommità della capanna. La copertura di paglia può essere rimossa per avere la possibilità di accedere alle scorte di cereali custoditi nel sottotetto.

Una giovane Somba prepara, dissodandolo, il terreno per la semina. Un mazzetto di foglie è il suo unico vestito. Un’immagine che ci riporta all’alba dell’uomo.

Dal diario della missione – novembre 1960
Dalla cima di una collina scorgiamo in lontananza un pastore Somba avanzare tra le erbe ingiallite. La scena è suggestiva e iniziamo a filmare da lontano. Poi il teleobiettivo inquadra, per pochi secondi, una macchia fulva. E’ una leonessa che striscia alle spalle dell’uomo. Il suo obiettivo sono certamente le capre che l’uomo spinge davanti a sé. Il pastore si trova tra il felino e gli animali, in una posizione pericolosa. Cerchiamo di richiamare la sua attenzione, inutilmente. Non ci resta che sparare. L’animale colpito muore all’istante. Ma le sorprese non sono finite: un leone maschio esce dalle erba e si allontana (siamo stati testimoni di una tecnica di caccia spesso utilizzata da questi felini. La femmina attacca il gregge e lo disperde, facendo arrivare le capre a portata di artiglio del maschio in agguato tra le erbe). Poi l’uomo scuoia l’animale e si allontana portando la pelle. Arrivato alla sua abitazione lo vediamo tagliare una zampa dell’animale e appenderla a fianco dell’ingresso. Siamo stupiti: quella zampa recisa ci ricorda un “ex voto” esposto nelle nostre chiese per grazia ricevuta: un’offerta a “Dibo” per lo scampato pericolo“.

Presso il Museo Castiglioni è possibile scoprire straordinari reperti etnologici ed archeologici.

Tutte le immagini fotografiche, i disegni e i testi di questo articolo sono di proprietà esclusiva dei fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni. Qualsiasi riproduzione, anche se parziale, è vietata. Per ricevere autorizzazione all’utilizzo si prega di contattare il Museo Castiglioni.

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