L'estrazione dell'oro nell'antichità e oggi.

La missione del 1991 di Alfredo e Angelo Castiglioni aveva lo scopo di ricercare e localizzare le miniere aurifere risalenti al periodo medievale arabo ed esplorare la vasta regione montuosa che si estende tra le latitudini nord 19°33’ e 19°03’.

Durante la missione i fratelli Castiglioni incontrarono un gruppo di minatori nubiani che estraggono oro con tecniche ed utensili risalenti ad epoca faraonica; metodi di lavorazione descritti, più di 2000 anni fa, da Agatarchide da Cnido, geografo della metà del secondo secolo a.C. che, su incarico di Tolomeo VI (o Tolomeo VIII), visitò le miniere d’oro del deserto nubiano e ne diede una dettagliata descrizione nel suo libro “Eritrea V”, opera ripresa da Diodoro Siculo. Di seguito la missione descritta in estratti dal diario tenuto dai fratelli Castiglioni.

La scoperta
Ci dirigiamo verso le montagne, tenendo costantemente direzione est-sud est 110°. Vogliamo documentare le miniere medievali islamiche che contiamo di trovare in questa zona desertica.

Attraversiamo una vasta pianura dove zone di pietrisco sono intercalate da distese sabbiose, punteggiate da bassi jebel. E’ il territorio dei Bisharin Umm Nagi. Un pastore accetta di venire con noi; conosce bene la zona per averla percorsa a dorso di dromedario alla ricerca di pascoli per i suoi armenti.

Durante questa prima parte del viaggio troviamo numerose macine preistoriche, testimonianza di una regione un tempo ricca di vegetazione.

Ad un centinaio di chilometri da Abu Hamed, si eleva il Jebel en-Nigeim (“la stella” secondo i Bisharin).

Sorprendentemente vediamo intorno al Jebel una quindicina di Bisharin che ricavano oro dal quarzo con tecniche estrattive non molto dissimili da quelle descritte da Agatarchide di Cnido. Ci fermiamo nella zona per alcuni giorni: desideriamo documentare una realtà che credevamo scomparsa e che affonda le sue radici in tempi lontani.

Il confronto
Il lavoro più importante, la frantumazione dei blocchi di quarzo aurifero, è svolto tra le rovine di un’antica costruzione difensiva. Probabilmente, anche nell’antichità, questa attività avveniva sotto la sorveglianza di personale incaricato allo scopo.

Ad ogni minatore viene affidato un certo quantitativo di quarzo che deve essere frantumato nell’arco della giornata.

Nella regione esistono diverse vene di quarzo aurifero che, come sottolineava Diodoro Siculo: “…è una pietra bianca” che risalta nel colore scuro del supporto roccioso.

Nel Jebel en-Nigeim, il quarzo viene spezzato scaldando la vena con il fuoco. I frammenti si accumulano alla base di gallerie scavate da generazioni di minatori.

E’ lo stesso metodo riferito da Diodoro Siculo: “…i minatori bruciano (il quarzo aurifero) con un fuoco di legna…”. Dopo aver frantumato la vena col calore, il quarzo viene ulteriormente spezzato in frammenti più piccoli.

Scriveva a questo proposito Diodoro “…i blocchi di quarzo (estratti dalle miniere) sono messi a disposizione dei “frantumatori”. Sono uomini robusti di circa 30 anni che, con un pestello di ferro, provvedono a sminuzzare, senza sosta, il minerale in mortai di pietra fino a quando il pezzo più grosso non supera la misura di una lenticchia”.

I minatori del Jebel en Nigeim addetti alla frantumazione, sono giovani nel pieno delle loro forze e svolgono questo duro lavoro usando come incudini gli utensili litici recuperati nelle antiche miniere.

Un lungo lavoro per ridurre i frammenti di quarzo nella “misura di una lenticchia”, come affermava Diodoro.

Un anello di paglia e di stoffa circonda il quarzo per impedire che, sotto i colpi di martello, le schegge possano ferire il minatore soprattutto agli occhi.

Proseguiva Diodoro: “Il lavoro fondamentale (nelle miniere) è quello svolto dallo “specialista” delle pietre. Quest’uomo indica ai minatori il filone che contiene il metallo (l’oro)”.

Anche nelle miniere del Jebel en-Nigeim questo compito è effettuato da un uomo che valuta visivamente il tenore d’oro contenuto nel quarzo.

Poi un campione di polvere viene lavato in una bacinella per separare con l’acqua le pagliuzze d’oro.

Ed è sempre la stima dello specialista che stabilisce se il quantitativo d’oro recuperato è sufficiente per iniziare la faticosa attività di scavo delle vene di quarzo.

Fino a questa fase i lavori svolti dai minatori del Jebel en Nigeim rispecchiano le descrizioni di Diodoro. L’ultima operazione, la polverizzazione del quarzo, è invece effettuata con una macina meccanica azionata da un vetusto motore a scoppio.

Ben diversa era la fatica richiesta da questo lavoro nei tempi antichi stando alle descrizioni del geografo: “Questa lavorazione viene effettuata dalle donne che, singolarmente o aiutate dai loro mariti o parenti, sono rinchiuse in recinti. Qui ci sono numerose macine allineate…. Queste donne, servendosi di un manico di legno… fanno girare le macine fino a quando tutto il quantitativo di pietre a loro affidato non è stato ridotto in polvere simile a farina”.

 

La vita nella miniera di en-Nigeim
La miniera è organizzata in modo preciso, seguendo schemi e ritmi di lavoro che si ripetono uguali ogni giorno. Alcuni scavi, che penetrano per decine di metri nella montagna, sono utilizzati dai minatori come temporanei luoghi di riposo.

Chi non è addetto ai lavori minerari svolge attività utili a tutti, come cucinare e riempire le ghirbe d’acqua attinta da un pozzo non lontano. L’acqua serve per le necessità idriche dei minatori, non per il lavaggio della polvere di quarzo.

Il lavaggio della polvere quarzifera
Come in tempi antichi, considerando la scarsità d’acqua nelle zone minerarie, soltanto la riduzione del minerale veniva effettuato in loco, mentre la polvere quarzifera era trasportata verso il Nilo per il lavaggio, così anche nella miniera di en- Nigeim il minerale, raccolto in sacchi, viene trasportato a dorso di dromedario verso il Nilo distante circa cento chilometri, seguendo gli uadi Halbob e Senateb.

Ad Abu Dis, sulle rive del fiume, una ventina di nubiani separa le pagliuzze d’oro dal minerale sterile, facendo ruotare catini d’alluminio.

Anche qui esiste un’organizzazione del lavoro. I sacchi contenenti il quarzo polverizzato vengono portati sulla riva del Nilo, dove un uomo distribuisce la polvere ai minatori immersi nell’acqua. Si riduce così il tempo per il rifornimento che comporterebbe la momentanea sospensione dell’attività del minatore.

Ogni minatore osserva attentamente il risultato del suo lavoro: pochi grammi d’oro frammisti ad ossidi di ferro. Solo al termine della giornata, i più fortunati possono mostrare una piccola pepita.

Questa documentazione testimonia la sorprendente continuità di una attività mineraria che, da tempi lontani, è giunta immutata fino ai nostri giorni.

Presso il Museo Castiglioni si trovano, tra numerosi reperti etnologici ed archeologici, alcuni strumenti litici utilizzati nell’antichità per ricavare oro dal quarzo aurifero.

Tutte le immagini fotografiche, i disegni e i testi di questo articolo sono di proprietà esclusiva dei fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni. Qualsiasi riproduzione, anche se parziale, è vietata. Per ricevere autorizzazione all’utilizzo si prega di contattare il Museo Castiglioni.

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