I Borana e i pozzi cantanti.

Siamo nel villaggio Borana di Kallu (nome del primo antenato di questa etnia), nella regione di Sidamo, nell’Etiopia meridionale.
Lo scopo è studiare gli aspetti poco noti della cultura Borana, soprattutto l’organizzazione dei pozzi che permette agli uomini e a migliaia di animali di disporre dell’acqua necessaria alla loro sopravvivenza anche durante il periodo della massima siccità, da dicembre a febbraio.

In questa stagione la savana si trasforma in un immenso tappeto giallo di erbe bruciate dal sole sopra le quali svettano alti termitai.

Ci accompagna l’etiope Galma Hanti, un “ayantu”, un uomo saggio, una specie di filosofo-indovino che predice il futuro e al quale tutti si rivolgono per ottenere consigli.

L’albero della vita
Dal diario della missione: Luglio 1982.
Abbiamo fatto il campo sotto un sicomoro.

L’”ayantu” sorride:
Avete aperto le vostre tende sotto “l’albero della vita”” – ci dice soddisfatto. “Le radici cercano l’acqua” – prosegue – “e quelle del sicomoro si spingono in profondità . Ed è seguendole che i nostri antenati hanno raggiunto le falde acquifere. I nostri pozzi non sono diritti, ma sinuosi come le radici che hanno indicato la strada“.

 

Anche per gli egizi il sicomoro era un albero sacro, il suo legno era utilizzato per fabbricare i sarcofagi che contenevano le mummie e la mummificazione era indispensabile per continuare la vita nell’oltre tomba.

I pozzi Borana
I pozzi (“ella” in lingua Borana) possono sprofondare fino a trenta metri ma non sono mai verticali.

Per questo motivo l’acqua non può essere attinta usando una corda a cui è appeso un contenitore. E’ invece una catena di uomini e di donne che solleva il liquido con la sola forza delle braccia, dal fondo del pozzo fino agli abbeveratoi in superficie.

Furono forse scavati dai Wardai (Galla), una popolazione che attualmente vive nel Kenya settentrionale. Nel corso del XVI secolo i Borana estesero il loro territorio nella regione del Sidamo, scacciando la popolazione che vi abitava. Conquistarono i pozzi e seppero conservarli. Ancora oggi li riparano, li puliscono dalla terra che si accumula sul fondo durante il periodo piovoso. Raramente ne scavano di nuovi.

L’ “okole”
Dal diario della spedizione: 1983 ore 4,30
E’ ancora buio. Una fila di uomini e di donne si dirige verso il pozzo alla tenue luce di piccole fiaccole. Ognuno ha in mano l’utensile del suo lavoro: l’ “okole”, un contenitore con il quale è possibile attingere dai 4 ai 6 litri d’acqua, fabbricato con pelle di giraffa o di bufalo cafro. Racchiude l’esperienza di generazioni di pastori ed è perfetto per lo scopo al quale è destinato.

La pelle è rigida, ma nel contempo robusta e leggera. L’apertura è uguale al diametro per rendere veloce il riempimento.

Precisa l’”ayantu”: “il cuoio è ruvido e non scivola dalle mani e la pelle di giraffa e di bufalo con la quale l’okole è costruita, non è attaccata dalle muffe e non “avvelena” l’acqua destinata ai nostri animali“.

 

Uomini e donne, ognuno con la propria okole, incominciano a calarsi nel pozzo . I pastori scompaiono nella cavità.

Sono tutti giovanissimi, i maschi hanno dai 15 ai 25 anni e le femmine dai 20 ai 30.

Ci affacciamo all’imboccatura, sembra un girone dantesco: le teste sfumano nel buio e scompaiono dopo la prima ansa. Si posizionano gli uni sopra gli altri ad una distanza di circa un metro e ottanta, in bilico su tralicci di legno fissati alle pareti, viscidi di fango.

Stimiamo che la profondità del pozzo sia di circa 30 metri, l’altezza di una casa di 10 piani. Attendono il segnale di inizio lavoro.

“L’Abe Ella” , il padre del pozzo.

E’ lui che darà il segnale. Sulla cima di un colle osserva gli animali che arrivano numerosi dalla savana.

I pastori li radunano davanti all’ingresso che conduce al pozzo e restano in attesa.

“Il padre del pozzo” osserva attentamente gli animali assiepati sotto di lui; poi inizia a cantare. E’ un ritmo lento che gli uomini nell’interno del pozzo riprendono, come una lontana eco. Ha valutato che gli animali non sono molti e pertanto non è necessaria molta acqua.
Ci spiega l’”ayantu”: “E’ la cadenza del canto che stabilisce il ritmo del lavoro: il quantitativo d’acqua deve arrivare in superficie nella giusta quantità. E’ preziosa e non deve essere sprecata“.
Poi, ad un cenno dell’”Abe Ella” gli animali vengono fatti entrare , incanalati in uno stretto corridoio, che arriva agli abbeveratoi (naniga in lingua Borana).

Il lavoro
Nel pozzo l’acqua viene portata in superficie seguendo il tempo stabilito dal canto.

Ogni uomo solleva con una mano l’”okole” piena d’acqua e la passa al compagno che sta sopra di lui, ricevendo il recipiente vuoto che porge al compagno ai suoi piedi.

E’ un’incessante catena che parte dal pozzo e arriva fino all’imboccatura dove ci sono gli abbeveratoi.

Ogni tre secondi viene portato in superficie un okole pieno d’acqua: contiene mediamente 5 litri. In un minuto vengono estratti cento litri d’acqua: un quintale di liquido che passa di mano in mano e viene versato negli abbeveratoi, in sessanta secondi.

Ma la richiesta d’acqua può essere superiore quando gli animali sono numerosi. Il ritmo del canto dell’Abe Ella cambia, diviene più veloce, e, di rimbalzo, gli uomini modificano il loro, sincronizzandolo con quello del “padre del pozzo”. L’acqua affluisce in quantità maggiore: una okole ogni due secondi, circa 150 litri al minuto.
Un pozzo può abbeverare circa 1000 capi all’ora. Per raggiungere questi risultati, l’acqua deve essere conservata in bacini esterni. Da questi serbatoi, una doppia fila di uomini o di donne sollevano l’acqua fino agli abbeveratoi.

La ”fabbrica” dell’acqua
Come in una fabbrica, anche i pozzi seguono regole e tempi precisi. Così il lavoro dura tre ore consecutive, con una pausa di circa un’ora per gli uomini,di un’ora e mezza per le donne.

Gli anziani e gli ammalati sono esentati dal faticoso lavoro ai pozzi. Sono incaricati della manutenzione degli abbeveratoi che, quasi ogni giorno, devono essere riparati per impedire la fuoriuscita del prezioso liquido. Il piazzale davanti alla “naniga” (l’abbeveratoio) deve essere perfettamente pulito. Si eliminano soprattutto gli escrementi che, seccati dal sole e calpestati dagli animali, si trasformerebbero in una sottile polvere che danneggerebbe gli occhi degli uomini e degli armenti.

L’esplorazione dei pozzi
Durante la nostra permanenza abbiamo esplorato l’interno di alcuni pozzi. Abbiamo notato che la temperatura interna è di due-tre gradi inferiore a quella esterna, mentre l’umidità aumenta man mano che si procede verso il fondo. Non esistono strutture per sostenere le pareti, mentre c’è un intreccio di pali e di rami legati con corde che servono agli uomini e alle donne per posizionarsi ad una altezza di un metro e ottanta, uno sopra l’altro. In alcune nicchie scavate nelle pareti abbiamo constatato, sovente, la presenza di ragazzi.

Le abitazioni
Sono di paglia, sostenuta da una fitta intelaiatura di giunchi legati tra loro.

L’interno è ampio: le pareti sono abbellite con strisce di cuoio ornate di conchiglie cauri (ciprea monetaria).

Il focolare è situato vicino a nicchie di rami intrecciati che fungono da zone di riposo.

Gli animali, soprattutto i più piccoli, sono custoditi di notte nell’interno della capanna per proteggerli dall’attacco di animali predatori.

L’abbigliamento e le acconciature degli uomini
L’abbigliamento tipico degli uomini borana sono ampi pantaloni di cotone bianco e un mantello dello stesso colore drappeggiato sulle spalle. Qualche volta i pantaloni sono sostituiti da gonnellini di stoffa colorata. Gli anziani che hanno raggiunto la più elevata “classe d’eta’”(gada) , portano una fascia di cuoio intorno alla fronte, con un curioso ornamento a forma fallica, il “callatcha”.

L’acconciatura è molto elaborata. I capelli sono intrecciati con steli di paglia e assumono la curiosa forma ad “ali di farfalla”.

L’abbigliamento e le acconciature delle donne
Le donne Borana sono tra le più belle donne africane, sempre pronte al sorriso.

La madre, insegna alle figlie, fin da bambine, la cura del corpo e la pulizia personale. L’abbigliamento femminile consiste in vestiti di stoffe dolorate: le donne dimostrano una notevole capacità negli accostamenti dei colori. Sempre più raramente indossano ornamenti tradizionali, come corte fasce ornate di conchiglie “cauri” e pendenti di calebasse, usate soprattutto durante le feste.

Le giovani realizzano elaborate acconciature dei capelli, mentre le donne anziane portano cuffie ornate di bianche conchiglie.

Un importante ornamento femminile è la collana di alluminio (ricavato da vecchie pentole) composta da numerose file arrotolate intorno al collo. Mantengono eretta la testa della donna conferendole, quando cammina, un atteggiamento nobile.

Presso il Museo Castiglioni è possibile scoprire, tra numerosi reperti etnologici ed archeologici, un’accurata documentazione fotografica dei fratelli Castiglioni dedicata alla vita dei Borana, un’etnia che in questi ultimi anni sta abbandonando rapidamente gli antichi usi e costumi.

Tutte le immagini fotografiche, i disegni e i testi di questo articolo sono di proprietà esclusiva dei fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni. Qualsiasi riproduzione, anche se parziale, è vietata. Per ricevere autorizzazione all’utilizzo si prega di contattare il Museo Castiglioni.

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