Lo storico greco Erodoto (484-425 a.C.) racconta nel terzo libro delle Historiai che Cambise II, re dell’impero persiano dal 529 al 522 a.C., conquistò l’Egitto nel 525 a.C..
Arrivato a Tebe (l’attuale Luxor) inviò un’armata di cinquantamila uomini nel deserto occidentale libico per distruggere l’oasi di Siwa, dove si trovava il famoso oracolo di Zeus Ammone. Appare subito esagerato il numero dei soldati per la conquista di una pacifica oasi.
E’ da sottolineare l’avversione di Erodoto nei confronti dei persiani che, forse, lo spinse a dilatarne il numero.
Non si conoscono i motivi storici che indussero Cambise a voler distruggere Siwa. Si possono fare solo delle ipotesi.
Forse voleva vendicarsi di una predizione negativa (Erodoto lo definisce “un despota folle”), oppure per un motivo sicuramente più attendibile: controllare il commercio del Silphium, una pianta erbacea del deserto, forse con effetti allucinogeni.
Cresceva nella regione di Siwa e di Cirene e era molto richiesto anche dalla Roma imperiale. Il silphium, ora scomparso, è riprodotto su una moneta di Cirene.
La tragedia
Scriveva Erodoto: “I persiani, mandati (da Cambise) a combattere contro gli Ammoni (gli abitanti di Siwa) arrivarono fino all’oasi chiamata ”Isola dei Beati” (forse l’attuale el-Kharga), ma a partire da qui nessuno è più in grado di dire nulla sui soldati… Mentre prendevano il pasto spirò contro essi un vento di meridione potente ed insolito che li seppellì ed essi così sarebbero scomparsi…”. Il vento potente di cui parla Erodoto è forse il khamsin (in arabo “cinquanta”) che spira, appunto per cinquanta giorni in marzo ed aprile, da meridione con grande veemenza.
La ricerca
Molti esploratori, tra cui il nostro Giovanni Battista Belzoni (1778-1823), hanno tentato di ritrovare l’armata scomparsa, seguendo quella che, ancora oggi, è chiamata la “via delle oasi”: la lunga carovaniera che transita attraverso le oasi di Darkhla, Abu Minqar, Farafra, Ain Dalla, per raggiungere Siwa provenendo da est. E’ importante ricordare che queste oasi, ai tempi di Cambise, erano ancora sotto controllo egizio (solo più tardi, a partire dal 505 a.C. passarono ai dominatori persiani). Quindi è improbabile che, per conquistare Siwa, i persiani combattessero oasi per oasi arrivando a destinazione con gli effettivi decimati. Le ricerche lungo la “via delle oasi” non hanno mai dato risultati.
L’ipotesi Castiglioni
Si basa su una diversa ipotesi di percorso: un itinerario che provenendo da est puntava poi diritto verso nord attraverso una regione desertica del tutto disabitata, il “gran mare di sabbia” (vedi cartina). Un percorso di oltre 1300 chilometri (di un terzo più lungo rispetto alla ”via delle oasi”), ma con il vantaggio di raggiungere Siwa senza dover combattere lungo il tragitto e di attaccarla di sorpresa.
Il problema dell’acqua
Scrive Erodoto che i persiani partiti da Tebe raggiunsero “l’Isola dei Beati” “…in sette giorni di cammino attraverso il deserto“. Una carovana in un giorno di marcia copre 30-35 chilometri: in sette giorni percorre quindi una distanza di 220-250 chilometri. Pertanto l’armata aveva un’autonomia d’acqua sufficiente per raggiungere l’oasi di el Kharga dove effettuare un nuovo rifornimento. E’ da notare che l’attuale distanza tra Tebe el Kharga corrisponde a quanto scritto da Erodoto: sono effettivamente circa 240 chilometri.
La missione Castiglioni
Per convalidare l’ipotesi del percorso dell’armata attraverso il deserto, era quindi necessario ricercare fonti di approvvigionamento ogni 250-300 chilometri. Un secondo rifornimento idrico poteva essere effettuato nei pressi della collina di Abu Ballas, a circa 300 chilometri da El Kharga, dove esiste un enorme deposito di antiche anfore per l’acqua.
La collina di Abu Ballas
Le anfore di Abu Ballas furono scoperte dal geografo John Ball nel 1917. Il nome di Abu Ballas ovvero “padre delle anfore” fu dato alla località dal principe Kemal el Dine che secondo una stima approssimativa valutò in 300-400 il numero delle anfore che, contenendo 30-40 litri ciascuna, portava il quantitativo d’acqua totale tra i 9000 e i 16.000 litri. E’ presumibile che nella zona dovesse esserci un pozzo o una sorgente in grado di produrre solo piccoli quantitativi, con persone incaricate di riempire le anfore man mano che l’acqua filtrava. Un oasi artificiale quindi, che forse era servita di rifornimento all’armata. Alcuni frammenti di queste anfore, valutate alla termoluminescenza, una tecnica utilizzata in archeologia per la datazione della ceramica, risalgono al periodo di Cambise. Altre fonti o depositi d’acqua furono trovati dalla missione Castiglioni lungo l’ipotetico percorso dell’armata, distanti in media 250-300 chilometri l’uno dall’altro.
Un fatale errore geografico
Dal diario della spedizione. “21 dicembre 1996. Siamo a circa 28 gradi di latitudine nord dove, secondo il geografo greco Claudio Tolomeo (100-170 circa d.C.), doveva trovarsi Siwa; dati che, anche se posteriori, erano quasi certamente noti anche all’epoca di Cambise. Siwa si trovava invece a nord del 29° parallelo, quindi circa 130 chilometri più a settentrione. Questo errore potrebbe essere stato fatale all’armata di Cambise.”
Scriveva l’esploratore ungherese L.E. Almasy (1895-1951), grande esperto del deserto libico, durante la sua missione del 1934: “questi ultimi cento chilometri rappresentano la peggiore regione desertica che io abbia mai conosciuto (…). Se l’armata persiana vi penetrò, non mi stupisco della sua disfatta”.
Forse in questa zona incominciò a soffiare con maggior veemenza il khamsin: i soldati persiani, privi d’acqua si sarebbero dispersi, ognuno cercando rifugio in ripari con apertura verso settentrione.
Le scoperte
Dal diario della missione: “Ali Barakat, il geologo dell’Università del Cairo che ci accompagna, esplora con un metal detector le grotte che si aprono sul fianco di colline di arenaria. Lo osserviamo mentre entra e esce dai vari ripari”.
Poi, improvvisamente, lo sentiamo gridare e con ampi gesti delle braccia far segno di raggiungerlo. Correndo lo affianchiamo. E’ chino a terra e sta rimuovendo con cura il sottile strato di sabbia che copre una lama di un pugnale che il metal detector ha segnalato. Poco lontano viene alla luce l’elsa dell’arma.
…un braccialetto…
…un orecchino e le perline di una collana, tutti d’argento…
…il minuscolo particolare del finimento di un cavallo.
I reperti si trovano tra numerose ossa e frammenti ceramici. Li fotografiamo e li affidiamo ad Ali che si impegna a consegnarli alle autorità archeologiche del Cairo. Ma le scoperte non sono terminate. Accompagnati da Gogos, un beduino grande conoscitore della zona, troviamo una profonda fossa con centinaia di ossa umane. Molte sono state accumulate fuori dall’anfratto.
Le ricerche
Le indagini storiche e gli scavi archeologici effettuati negli anni successivi hanno permesso di stabilire che le rovine del uadi el-Allaki appartengono a Berenice Pancrisia.
L’identificazione venne condivisa da un’apposita commissione che nel 1990 si riunì a Milano, sotto la presidenza di Jean Vercoutter, Accademico di Francia, della quale facevano parte: Sergio Donadoni, Accademico dei Lincei, Annamaria Roveri Donadoni, allora direttrice del Museo Egizio di Torino, Charles Bonnet, Accademico ginevrino, Isabella Caneva ed altri esperti della regione nubiana.
Anche le indagini storiche avvalorarono l’ipotesi.
Il primo che cercò di dare una collocazione geografica a Berenice Pancrisia, fu il geografo francese Jean-Baptiste d’Anville che nel suo volume Géographie Ancienne Abrégée (Parigi 1768) localizzava la città nei pressi di una “montagna con miniere dalle quali i Tolomei estraevano molto oro. Montagna che i geografi arabi chiamano Alaki o Ollaki”. Erroneamente d’Anville segnò sulla sua mappa il jebel (montagna) Allaki e Berenice Pancrisia in prossimità del Mar Rosso.
In realtà le montagne ricche di quarzo aurifero del uadi el-Allaki si trovano a circa 250 chilometri dalla costa.
Presso il Museo Castiglioni è possibile approfondire la conoscenza di questa missione di ricerca compiuta nel 1996 dall’equipe dei fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni.
Tutte le immagini fotografiche, i disegni e i testi di questo articolo sono di proprietà esclusiva dei fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni. Qualsiasi riproduzione, anche se parziale, è vietata. Per ricevere autorizzazione all’utilizzo si prega di contattare il Museo Castiglioni.
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